Il rischio di vedere il nostro Paese scivolare in un sistema “legittimato” di disuguaglianze sociali ed economiche sempre più profonde, non è mai stato così vicino come in questo periodo. Il progetto di autonomia differenziata sembrava poter essere approvato in fretta e furia, senza mettere nulla in campo per difendere i diritti delle persone e tutelarli, in modo omogeneo, da Nord a Sud. Questo rischio è stato fortunatamente scongiurato (almeno per ora e ci auguriamo che non si ripresenti a settembre), ma in ogni caso non diminuisce la preoccupazione di fondo con cui anche il Terzo settore guarda al regionalismo differenziato, per le conseguenze che potrà avere in termini di ulteriore perdita di servizi e opportunità delle persone in campo sociale, sanitario, culturale ed educativo.

Se, da un lato, la strada che il Governo ha deciso di intraprendere con il ddl Calderoli ha avuto almeno il merito di riportare nell’agenda politica il tema dei Livelli essenziali delle prestazioni, attesi ormai da oltre vent’anni, dall’altro la modalità con cui lo si sta affrontando non dimostra volontà politica di salvaguardare in modo prioritario l’unitarietà del Paese e il principio di uguaglianza.

Il lavoro della commissione per la definizione dei Lep, purtroppo, sta proseguendo senza che fuori se ne sappia nulla e senza che le svariate realtà interessate, tra cui anche il Terzo settore, siano ascoltate o coinvolte. Il timore che si proceda alla determinazione dei Lep con un’operazione al ribasso appare quindi sempre più concreto. Significherebbe “liquidare” il problema delle disuguaglianze con una semplice presa d’atto e cristallizzazione dell’esistente, se non addirittura peggiorarlo, e non comprendere che lo sviluppo sociale traina anche lo sviluppo economico.

Il quadro attuale è già particolarmente drammatico: secondo Istat, ad esempio, la spesa sociale dei Comuni del Sud, pari a 66 euro pro-capite, è la metà rispetto alla media nazionale e poco più di un terzo rispetto al Nord-Est (184 euro). Quasi il 30% dei Comuni del Mezzogiorno, inoltre, non offre il servizio di assistenza domiciliare agli anziani in condizioni di fragilità, mentre al Centro i Comuni che non lo fanno sono meno del 15% e al Nord sono meno del 10%. La spesa pro-capite media al Sud è al di sotto del dato nazionale anche per quanto riguarda i minori, le persone con disabilità o a rischio di esclusione sociale.

Ma come è possibile che, lavorando finalmente sui Livelli essenziali delle prestazioni, ci sia il pericolo che nulla cambi in positivo? La questione principale riguarda il fatto che sia dal disegno di legge sull’autonomia che dall’ultima legge di Bilancio, emerge che i Lep possono essere definiti a risorse invariate, con un semplice riordino di quelli previsti da precedenti normative. Questo comporterebbe innanzitutto l’esclusione, di fatto, dei Lep sociali, cioè di quegli interventi e attività che servono a garantire qualità della vita, prevenzione, pari opportunità e riduzione delle condizioni di svantaggio.

Ma significherebbe anche lasciare che servizi e prestazioni, definiti in modo uguale per tutti i territori, rimangano lettera morta, privi di risorse e politiche che li rendano reali.

In sostanza, la determinazione dei Livelli essenziali sembra essere considerata dal Governo non tanto perché necessaria ad assicurare gli stessi diritti e opportunità a tutti i cittadini, ma semplicemente perché funzionale al “traguardo” delle intese differenziate con le varie Regioni. Si tratta di un approccio pericoloso, che non mette al primo posto il superamento di fenomeni discriminatori, particolarmente cruciale in frangenti critici come quello attuale.

Pensiamo, ad esempio, al diritto all’accesso alle cure e a un’istruzione di qualità, ma anche a spazi di socialità, opportunità culturali e di inclusione: definire i Livelli essenziali di servizi e prestazioni per garantirlo in modo uniforme è il passo imprescindibile ma comunque non sufficiente, perché occorre poi che i Lep siano adeguatamente finanziati e resi concretamente esigibili sui territori, anche attraverso la realizzazione di un’infrastrutturazione sociale. Senza tutto questo, ci troveremmo di fronte a un regionalismo delle disuguaglianze: un rischio grave per tutto il Paese, che va allontanato con fermezza.

Il ruolo del Terzo settore è quello di operare, anche al fianco della pubblica amministrazione, affinchè i bisogni di persone e territori abbiano risposte tangibili: ecco perché il percorso verso l’autonomia differenziata ci riguarda da vicino e dovrebbe prevedere l’intervento delle organizzazioni nelle attività di co-programmazione, così come nelle fasi di determinazione di Lep e Lep sociali. Il coinvolgimento del Terzo settore, invece, è ad oggi del tutto assente.

Un progetto di enorme portata come quello dell’autonomia, avrebbe bisogno in generale di un confronto ampio ed approfondito per potersi conquistare un diffuso consenso, di un coinvolgimento maggiore di istituzioni territoriali e parti sociali. Speriamo ce ne sia ancora il tempo.

Vanessa Pallucchi

Autore